(scritto da un incrocio tra un magazzino di un’azienda di cup-noodles ed un caravanserraglio, infestati entrambi dai sensi di colpa per compiti che si accumulano e che di questo passo non saranno mai portati a termine… in poche parole, camera mia. Umore e tempo: uggiosi. Temperatura interna: 25°C [maledetto condominio tropicale!]; temperatura esterna: 14°C)
Per certi aspetti, non pensavo che il mio ritorno sarebbe stato come è stato. Prevedevo che, in buona parte, lo shock culturale inverso sarebbe stato, appunto, l’inverso di quello avuto all’andata, e che quindi si sarebbe risolto in affermazioni del tipo: la gente è scortese, le strade sono sporche, c’è troppo traffico, le file ordinate sono un’utopia e via dicendo, ma che si sarebbe fermato lì. Insomma, un paese un po’sporco e bifolco, ma, sotto sotto, il luogo dove sono sopravvissuto agli eventi per 17 anni, una parte di me, un rifugio sicuro.
Ciò che non immaginavo era che, questo mio angolo di mondo, lo avrei visto sotto occhi cambiati, che non sono più flessibili e tendenti alla cattolica rassegnazione, ma ormai abituati a vedere le cose sotto un’altra ottica, meno disposta a venire a patti con la moralità per evitare di doverci rimettere il fegato. Vedendo quella che un tempo chiamavo “via di casa” essere diventata (forse lo è sempre stata) una specie di discarica a cielo aperto, insegnanti rabbiosi che scaricano le proprie frustrazioni sulla classe minacciando ritorsioni personali, non posso fare a meno di allibire. Il paragone col Giappone viene spontaneo, anche troppo, e mai come ora tendo ad idealizzarlo come luogo di perfezione… è ironico, sinceramente: quando ero fuori, avevo ripensato la mia concezione di Italia e Giappone umanizzando il secondo e decantando le lodi della prima, fino a teorizzare un completo pareggio in cui gli aspetti negativi di uno trovavano compensazione in quelli positivi dell’altro; ora però mi rendo conto di quanto avessi sopravvalutato la presunta “vitalità italiana”.
Ormai vivo di paragoni… so di non dover eccedere nel farli, ma mi viene impossibile evitarli. Non so quanto di questo sia dovuto all’ambiente umano che mi circonda – mi trovo bene con la mia famiglia, ed anche con i miei pochi ma buoni amici; l’unico problema sarebbe la scuola, ma non penso sia mai piaciuta a qualcuno… – o ad una più generale sensazione di futuro in continuo peggioramento. Forse sarà dovuto ad una diffusa tendenza all’eccessiva lamentosità che accomuna più o meno tutti gli italiani (“Ma è perché di cose di cui lamentarci siamo pieni…” direbbe qualcuno, a volte senza cogliere l’ironia di ciò che dice!), forse al fatto che oggettivamente il nostro paese non rifulge più granché, forse per la nostra avidità o forse per la crisi economica (ma io sono un sostenitore della decrescita, quindi non mi straccerò le vesti se il PIL calasse del 3%), fatto sta che il futuro non è più quello di una volta. La cosa, per ora, non mi riguarda personalmente, ma, per così dire, manca la trazione che solo un paese sicuro può dare.
Il Giappone, per quanto ho visto, questa trazione la dà: anche lì, i problemi ci sono – come dappertutto – ma, considerati i progetti che i miei compagni di scuola facevano già in secondo liceo (il secondo di tre anni, non cinque come da noi), e paragonati questi con il fatto che noi di quarto liceo del nostro futuro non abbiamo alcun’idea, lì c’è la sensazione di far parte di un meccanismo più grande, qui che, in qualche modo, riusciremo a svicolare e vivere di mezzucci, dopo una faticosa ed inutile laurea.
Sarà che dal ritorno è passato ancora poco – sono due settimane esatte esatte, che ho lasciato trascorrere per schiarirmi le idee e non ammorbarvi con pensieri torvi – ma ancora non mi sono re-inserito nelle mille tribolazioni quotidiane: la mia routine, anzi, mi pare patetica, e mi ci vorrà del tempo prima di calarmi di nuovo nei miei vecchi panni.
Sono in una condizione particolare: conosco il Giappone ed i suoi difetti, e non mi ci posso sentire completamente a casa (come, per esempio, può fare chi vada in un paese che abbia un’apertura agli stranieri più… adeguata ai tempi, vedi gli USA o la stessa bistrattata Italia), nel contempo non mi sento più a casa nemmeno a casa mia, perché sono cambiato nel frattempo e, per ora – ma penso che questo col tempo cambierà – la mia attenzione viene troppo spesso distolta da difetti che prima non notavo, o ai quali avevo fatto il callo. In pratica, sono andato verso quello che nei miei pensieri era l’Eldorado – che poi non era niente affatto male, è vero, ma non il Paradiso come molti degli amanti del Giappone si figurano – ma non avevo tenuto conto che la mia vita italiana si sarebbe per forza di cose dovuta confrontare con quella giapponese, e sono finito nella paradossale condizione di aver cercato – metaforicamente – una nuova casa, senza trovarla, e di aver perso parte dell’attaccamento alla mia, che non mi è sembrata mai così imperfetta.
Non un dramma, lo ammetto, ma nemmeno tanto piacevole.
Alle volte ho una strana sensazione: come se il mio viaggio in Giappone fosse stato anni fa, in un tempo lontanissimo ed indefinito, mentre 15 giorni fa ancora trotterellavo tra grattacieli di vetro e monorotaie sopraelevate… non so se la mia condizione sia particolarmente miserevole o se l’impietosità del paragone derivi dal contrasto con la mia esperienza giapponese ed all’amore per la forma che ne è derivato; so per certo che, una volta passato questo limbo di incertezza, potrò fare paragoni più sereni e meno avventati, rivalutare molti aspetti della mia vita quotidiana e riscoprire ciò che rimpiangevo dell’Italia in Giappone (oltre alle lasagne, che ho mangiato il giorno stesso dell’arrivo :P)… fino ad allora, però, sarà dura: non solo perché – chevvelodicoaffa’ – il Giappone è il Giappone, ma anche perché la partenza è difficile, sì, ma è il ritorno la parte più dura.